Il genio di Dovlatov, uno dei grandi umoristi della letteratura russa, un autentico classico, consisteva nella capacità di sentire e di esprimere la paradossalità universale. La quotidianità dell’esistenza dell’uomo sovietico, per esempio, ma anche l’american way of life come vissuta da un emigrato di ultima generazione venuto in America per poter pubblicare, fino al paradosso connaturato in uno scarafaggio (che lui diceva di aver trovato in America per la prima volta). Di conseguenza, i suoi protagonisti erano lui stesso, in primo luogo, e la sua esistenza di anarchico drop out nelle maglie ormai rilasciate dell’ultima URSS o alle prese con le strane mistiche capitalistiche del nuovo mondo della libertà; e poi gli stralunati artisti e vagabondi suoi compagni. Una specie di perenne generazione beatnik di matrice e cultura sovietica a cui ha dato l’immortalità, che non può esistere più dopo la fine dell’Unione Sovietica, ma costituisce un bacino illimitato di umorismo e di storie non meno della burocrazia zarista immortalata da Gogol’. Con la particolarità che Dovlatov poté rappresentarla, per così dire, dagli Urali all’Atlantico, nell’atto di arrangiarsi in URSS come in America, dopo l’emigrazione. Con un effetto di scettico distacco, di superiorità più unica che rara a tutte le etichette, tutti i sogni, tutti gli slogan, che dota il suo umorismo di un segno filosofico di saggezza anticonformista e la sua scrittura del miracolo narrativo di rendere in forma scritta il racconto orale. La marcia dei solitari è la raccolta dei suoi editoriali, scritti per il giornale «Il Nuovo Americano» da lui fondato per la colonia degli ebreo-russi emigrati in USA. Un’altra stagione nonconformista, anzi anticonformista rispetto alla retorica degli altri fogli per immigrati concorrenti, di cui i fondi del direttore raccontano l’avventura.
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Il genio di Dovlatov, uno dei grandi umoristi della letteratura russa, un autentico classico, consisteva nella capacità di sentire e di esprimere la paradossalità universale. La quotidianità dell’esistenza dell’uomo sovietico, per esempio, ma anche l’american way of life come vissuta da un emigrato di ultima generazione venuto in America per poter pubblicare, fino al paradosso connaturato in uno scarafaggio (che lui diceva di aver trovato in America per la prima volta). Di conseguenza, i suoi protagonisti erano lui stesso, in primo luogo, e la sua esistenza di anarchico drop out nelle maglie ormai rilasciate dell’ultima URSS o alle prese con le strane mistiche capitalistiche del nuovo mondo della libertà; e poi gli stralunati artisti e vagabondi suoi compagni. Una specie di perenne generazione beatnik di matrice e cultura sovietica a cui ha dato l’immortalità, che non può esistere più dopo la fine dell’Unione Sovietica, ma costituisce un bacino illimitato di umorismo e di storie non meno della burocrazia zarista immortalata da Gogol’. Con la particolarità che Dovlatov poté rappresentarla, per così dire, dagli Urali all’Atlantico, nell’atto di arrangiarsi in URSS come in America, dopo l’emigrazione. Con un effetto di scettico distacco, di superiorità più unica che rara a tutte le etichette, tutti i sogni, tutti gli slogan, che dota il suo umorismo di un segno filosofico di saggezza anticonformista e la sua scrittura del miracolo narrativo di rendere in forma scritta il racconto orale. La marcia dei solitari è la raccolta dei suoi editoriali, scritti per il giornale «Il Nuovo Americano» da lui fondato per la colonia degli ebreo-russi emigrati in USA. Un’altra stagione nonconformista, anzi anticonformista rispetto alla retorica degli altri fogli per immigrati concorrenti, di cui i fondi del direttore raccontano l’avventura.