A proposito della Via per l’Oxiana, che amava come pochi altri libri e contribuì efficacemente a far riscoprire, Bruce Chatwin annotò: «La mia copia personale – ormai priva della rilegatura e tutta macchiata, dopo quattro viaggi nell’Asia centrale – mi accompagna da quando avevo quindici anni». Che cosa aveva trovato in queste pagine? Gentiluomo erudito, eccentrico ed esteta, Robert Byron (1905-1941) scrisse opere innovative sulla civiltà bizantina e sull’architettura islamica. Ma i suoi contributi di storico dell’arte non sono il primo dei suoi passaporti per la memoria. Di fatto Byron manifestò nel modo più pieno il suo talento idiosincratico, dispettoso e pungente soprattutto come scrittore di viaggi. Così, pur in un’epoca particolarmente ricca e felice per la letteratura di viaggio come gli anni Trenta, Byron riuscì agevolmente a scrivere il libro che spicca fra tutti come «il capolavoro» (Chatwin): La via per l’Oxiana, appunto. Si sa che per un vero viaggiatore esiste un epicentro dell’attrazione – e questo sta in alcune migliaia di chilometri dell’Asia centrale fra l’Afghanistan, l’altopiano iranico e quella terra di sogni per eccellenza che si chiamò Oxiana, semideserta ma popolata dal ricordo di un antico, verdissimo paradiso. Verso l’Oxiana si può procedere sulle orme di Alessandro o di Marco Polo, ma è più divertente seguire quelle di Byron, partendo da Venezia, porta di ogni Oriente, e poi risalendo verso il cuore dell’Asia da Cipro alla Palestina alla Siria e così via. Che cosa ci incanta in lui? Soprattutto la sua immensa percettività nell’osservare i relitti delle molte civiltà che attraversa e, con lo stesso occhio prensile, ogni figura, ogni personaggio, ogni oggetto che gli viene incontro durante il viaggio. Le sue annotazioni lasciano scorgere in filigrana uno spirito asciutto, altamente anglico, di iperuranio snobismo, strumento ideale per descrivere le intense incongruità della storia, che sembrano accumularsi in molti episodi esilaranti «sulla via per l’Oxiana» come in un parco naturale. E infine, ciò che sprigionano le sue pagine è l’essenza stessa del viaggio – o almeno del viaggio in quegli ultimi anni in cui, come diceva Evelyn Waugh, «partire era un piacere». La via per l’Oxiana apparve per la prima volta nel 1937.
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A proposito della Via per l’Oxiana, che amava come pochi altri libri e contribuì efficacemente a far riscoprire, Bruce Chatwin annotò: «La mia copia personale – ormai priva della rilegatura e tutta macchiata, dopo quattro viaggi nell’Asia centrale – mi accompagna da quando avevo quindici anni». Che cosa aveva trovato in queste pagine?Gentiluomo erudito, eccentrico ed esteta, Robert Byron (1905-1941) scrisse opere innovative sulla civiltà bizantina e sull’architettura islamica. Ma i suoi contributi di storico dell’arte non sono il primo dei suoi passaporti per la memoria. Di fatto Byron manifestò nel modo più pieno il suo talento idiosincratico, dispettoso e pungente soprattutto come scrittore di viaggi. Così, pur in un’epoca particolarmente ricca e felice per la letteratura di viaggio come gli anni Trenta, Byron riuscì agevolmente a scrivere il libro che spicca fra tutti come «il capolavoro» (Chatwin): La via per l’Oxiana, appunto. Si sa che per un vero viaggiatore esiste un epicentro dell’attrazione – e questo sta in alcune migliaia di chilometri dell’Asia centrale fra l’Afghanistan, l’altopiano iranico e quella terra di sogni per eccellenza che si chiamò Oxiana, semideserta ma popolata dal ricordo di un antico, verdissimo paradiso. Verso l’Oxiana si può procedere sulle orme di Alessandro o di Marco Polo, ma è più divertente seguire quelle di Byron, partendo da Venezia, porta di ogni Oriente, e poi risalendo verso il cuore dell’Asia da Cipro alla Palestina alla Siria e così via. Che cosa ci incanta in lui? Soprattutto la sua immensa percettività nell’osservare i relitti delle molte civiltà che attraversa e, con lo stesso occhio prensile, ogni figura, ogni personaggio, ogni oggetto che gli viene incontro durante il viaggio. Le sue annotazioni lasciano scorgere in filigrana uno spirito asciutto, altamente anglico, di iperuranio snobismo, strumento ideale per descrivere le intense incongruità della storia, che sembrano accumularsi in molti episodi esilaranti «sulla via per l’Oxiana» come in un parco naturale. E infine, ciò che sprigionano le sue pagine è l’essenza stessa del viaggio – o almeno del viaggio in quegli ultimi anni in cui, come diceva Evelyn Waugh, «partire era un piacere».
La via per l’Oxiana apparve per la prima volta nel 1937.