Giunto al suo trentesimo anno, il protagonista del racconto che dà il titolo a questo libro avverte che sta entrando in una zona della vita dove i nomi si scollano dalle cose, le cose vagano sospese, la spinta a muoversi si arresta per un lungo momento. «E la mattina di un giorno che poi scorderà si sveglia e, tutt’a un tratto, rimane lì steso senza riuscire ad alzarsi, colpito dai raggi di una luce crudele e sprovvisto di ogni arma e di ogni coraggio per affrontare il nuovo giorno». Qualcosa di simile è sottinteso nella nascita di questo libro: dopo aver sbalordito con la precoce perfezione e felicità delle sue liriche, Ingeborg Bachmann sembrò ritrarsi, dopo i trent’anni, in un suo nuovo regno della prosa, che qui si manifesta per la prima volta (1961). Ed è un mondo doloroso, ambiguo, investito da onde di delirio. Ma soprattutto è un mondo dove nulla viene lasciato nella cornice dei suoi significati prestabiliti. Qui sui fatti, su tutti i fatti, sulle minuzie di un processo o su un grandioso sentimento, si posa uno sguardo ardente e lucido, come se tutto ciò che esiste venisse messo alla prova di un’altra possibilità, forse quella a cui Musil – maestro della Bachmann – alludeva chiamandola «l’altro stato». Letti oggi, questi racconti rivelano con nettezza certi caratteri che sfuggivano ai primi lettori ammirati. Innanzitutto l’impressionante agilità e trasparenza della lingua, che rimanda a «una sorta di dolcezza austriaca», quel clima in cui la Bachmann stessa riconosceva la sua unica affinità con Rilke. Poi la sicurezza nello sfuggire alle innumerevoli stoltezze che donne e uomini si raccontano sui loro rapporti. Infine la capacità di lasciar trasparire, dietro ogni vicenda, l’ombra di una «partenza verso l’assoluto». Come il giudice Wildermuth, protagonista di uno di questi racconti, è costretto da un oscuro imputato che porta il suo stesso nome a confrontarsi con la parola verità, fino a restarne paralizzato, così tutti i personaggi di questo libro sfiorano un dubbio radicale sulle cose, sui sentimenti, sui nomi, e vivono accompagnati dall’incombere.
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Giunto al suo trentesimo anno, il protagonista del racconto che dà il titolo a questo libro avverte che sta entrando in una zona della vita dove i nomi si scollano dalle cose, le cose vagano sospese, la spinta a muoversi si arresta per un lungo momento. «E la mattina di un giorno che poi scorderà si sveglia e, tutt’a un tratto, rimane lì steso senza riuscire ad alzarsi, colpito dai raggi di una luce crudele e sprovvisto di ogni arma e di ogni coraggio per affrontare il nuovo giorno». Qualcosa di simile è sottinteso nella nascita di questo libro: dopo aver sbalordito con la precoce perfezione e felicità delle sue liriche, Ingeborg Bachmann sembrò ritrarsi, dopo i trent’anni, in un suo nuovo regno della prosa, che qui si manifesta per la prima volta (1961). Ed è un mondo doloroso, ambiguo, investito da onde di delirio. Ma soprattutto è un mondo dove nulla viene lasciato nella cornice dei suoi significati prestabiliti. Qui sui fatti, su tutti i fatti, sulle minuzie di un processo o su un grandioso sentimento, si posa uno sguardo ardente e lucido, come se tutto ciò che esiste venisse messo alla prova di un’altra possibilità, forse quella a cui Musil – maestro della Bachmann – alludeva chiamandola «l’altro stato». Letti oggi, questi racconti rivelano con nettezza certi caratteri che sfuggivano ai primi lettori ammirati. Innanzitutto l’impressionante agilità e trasparenza della lingua, che rimanda a «una sorta di dolcezza austriaca», quel clima in cui la Bachmann stessa riconosceva la sua unica affinità con Rilke. Poi la sicurezza nello sfuggire alle innumerevoli stoltezze che donne e uomini si raccontano sui loro rapporti. Infine la capacità di lasciar trasparire, dietro ogni vicenda, l’ombra di una «partenza verso l’assoluto». Come il giudice Wildermuth, protagonista di uno di questi racconti, è costretto da un oscuro imputato che porta il suo stesso nome a confrontarsi con la parola verità, fino a restarne paralizzato, così tutti i personaggi di questo libro sfiorano un dubbio radicale sulle cose, sui sentimenti, sui nomi, e vivono accompagnati dall’incombere.