Questo libro è stato pensato e scritto tra il 1974 e il 1977, quando l’ultimo dei movimenti degli anni settanta si radunò a Bologna. Uscì con il titolo Il mito del proletariato nel romanzo italiano presso l’editore Garzanti. L’idea nacque in aule poco illuminate di Istituti tecnici di periferia dove, insieme a un gruppetto di volontari, insegnavo materie letterarie a casalinghe, disoccupati, prostitute, desiderosi di prendere il diploma di terza media nell’ambito delle centocinquanta ore per lo studio, che gli operai avevano conquistato nel loro ultimo contratto. Era quella una piccola risposta a una domanda di democrazia che ci pareva sorgesse dalle viscere profonde della società.
Mentre si discute dell’indulto per centinaia di carcerati politici degli anni settanta, mi sono chiesto se ci sarà anche un indulto per i personaggi proletari del romanzo italiano. Come trasmettere la bellezza e la forza di simili personaggi alla generazione del «no future»? Il mito nacque con l’ambizione di dare una prospettiva, di trovare radici neoantiche al romanzo di sinistra di qualità che allora si pensava dovesse essere scritto. Anch’io mi provai a scriverne, ma quel romanzo lo firmò Elsa Morante e si chiamò La storia.
Vent’anni dopo una moltitudine di lettori giovani e meno giovani fanno diventare di culto romanzi giovanilistici che spesso sono foto sbiadite di pezzi di generazione che editori senza scrupoli approntano per i loro lettori. La parola «povero» non gode ottima stampa presso chi è stato povero fino a ieri e oggi si sente ricco a rischio, in una società senza futuro.
Chi leggerebbe più la storia di un povero oggi, che per giunta avesse provato a credere in un periodo della sua vita a una utopia o più semplicemente a nutrire dentro di sé una speranza? La lacrima sul povero era d’obbligo quando le distanze nella nostra società erano considerevoli. Vigeva allora, ricordate, l’«andata verso il popolo». I borghesi più avvertiti leggevano nelle vite più disperate i misfatti della loro classe. Con le distanze ravvicinate e le masse consumiste regna la «Grande Ipocrisia» come nei romanzi di Stendhal. Il povero di un tempo tende a diventare razzista verso gli extracomunitari di oggi e il ricco illuminato di una volta vomita i suoi veleni su quelle distanze perdute. Su entrambi regnano gli squali del mercato globale per i quali le identità, di classe e di sesso, sembrano irrimediabilmente scadute.
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Questo libro è stato pensato e scritto tra il 1974 e il 1977, quando l’ultimo dei movimenti degli anni settanta si radunò a Bologna. Uscì con il titolo Il mito del proletariato nel romanzo italiano presso l’editore Garzanti. L’idea nacque in aule poco illuminate di Istituti tecnici di periferia dove, insieme a un gruppetto di volontari, insegnavo materie letterarie a casalinghe, disoccupati, prostitute, desiderosi di prendere il diploma di terza media nell’ambito delle centocinquanta ore per lo studio, che gli operai avevano conquistato nel loro ultimo contratto. Era quella una piccola risposta a una domanda di democrazia che ci pareva sorgesse dalle viscere profonde della società.
Mentre si discute dell’indulto per centinaia di carcerati politici degli anni settanta, mi sono chiesto se ci sarà anche un indulto per i personaggi proletari del romanzo italiano. Come trasmettere la bellezza e la forza di simili personaggi alla generazione del «no future»? Il mito nacque con l’ambizione di dare una prospettiva, di trovare radici neoantiche al romanzo di sinistra di qualità che allora si pensava dovesse essere scritto. Anch’io mi provai a scriverne, ma quel romanzo lo firmò Elsa Morante e si chiamò La storia.
Vent’anni dopo una moltitudine di lettori giovani e meno giovani fanno diventare di culto romanzi giovanilistici che spesso sono foto sbiadite di pezzi di generazione che editori senza scrupoli approntano per i loro lettori. La parola «povero» non gode ottima stampa presso chi è stato povero fino a ieri e oggi si sente ricco a rischio, in una società senza futuro.
Chi leggerebbe più la storia di un povero oggi, che per giunta avesse provato a credere in un periodo della sua vita a una utopia o più semplicemente a nutrire dentro di sé una speranza? La lacrima sul povero era d’obbligo quando le distanze nella nostra società erano considerevoli. Vigeva allora, ricordate, l’«andata verso il popolo». I borghesi più avvertiti leggevano nelle vite più disperate i misfatti della loro classe. Con le distanze ravvicinate e le masse consumiste regna la «Grande Ipocrisia» come nei romanzi di Stendhal. Il povero di un tempo tende a diventare razzista verso gli extracomunitari di oggi e il ricco illuminato di una volta vomita i suoi veleni su quelle distanze perdute. Su entrambi regnano gli squali del mercato globale per i quali le identità, di classe e di sesso, sembrano irrimediabilmente scadute.