In Russia, dov’era nato e vissuto in età comunista, e in America dov’erano stati pubblicati i suoi libri durante l’esilio finale, Dovlatov è considerato un classico. I suoi romanzi e i suoi racconti sono infatti ritenuti la migliore testimonianza letteraria dell’Homo sovieticus d’epoca poststaliniana, quando cioè alla cupa tragedia del totalitarismo si andava sostituendo l’assurdo comico di una società in irreversibile autoconsunzione. Una situazione che – secondo Dovlatov – produceva una umanità caratteristica, esaltando all’eccesso quel certo anarchismo estetizzante, quel ribellismo individualistico, e soprattutto l’immensa riserva di autoironia propri del popolo russo, o almeno di quello spezzone di Russia in cui Dovlatov si ambientava, fatto di intellettuali e pseudo tali, dalla vita alcolica e picaresca, sempre sospesi tra il dissenso e il desiderio di sbarcare il lunario con il minimo di fatica. Personaggi che sembrano il fortunato innesto sul tronco del grande umorismo classico russo di una poetica dell’emarginazione alla Charles Bukowski. Scene di coinvolgente comicità, fatte di quadri staccati tenuti insieme in collages estremamente naturali, volti a rappresentare il caos insito nella condizione umana; storie sempre autobiografiche, allegramente pessimistiche, quasi che la vecchia URSS fosse lo scenario più adatto a esprimere l’assurdo dell’esistenza. Con un’attenzione spasmodica verso il linguaggio reale; tanto che i suoi dialoghi sono detti «una fotografia del linguaggio»: quindi la più pura raffigurazione di un tipo umano quale distillato da circostanze storicamente irripetibili. Nel Giornale invisibile si racconta di ciò che succede tra russi intorno al tentativo di fondare un periodico a New York, per la colonia degli immigrati. Perché l’Homo sovieticus, in patria o in esilio resta tale in realtà, come se fosse, assai più che il frutto di una società storica, una delle alternative dell’essere uomini. E tra le più divertenti a osservarla.
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In Russia, dov’era nato e vissuto in età comunista, e in America dov’erano stati pubblicati i suoi libri durante l’esilio finale, Dovlatov è considerato un classico. I suoi romanzi e i suoi racconti sono infatti ritenuti la migliore testimonianza letteraria dell’Homo sovieticus d’epoca poststaliniana, quando cioè alla cupa tragedia del totalitarismo si andava sostituendo l’assurdo comico di una società in irreversibile autoconsunzione. Una situazione che – secondo Dovlatov – produceva una umanità caratteristica, esaltando all’eccesso quel certo anarchismo estetizzante, quel ribellismo individualistico, e soprattutto l’immensa riserva di autoironia propri del popolo russo, o almeno di quello spezzone di Russia in cui Dovlatov si ambientava, fatto di intellettuali e pseudo tali, dalla vita alcolica e picaresca, sempre sospesi tra il dissenso e il desiderio di sbarcare il lunario con il minimo di fatica. Personaggi che sembrano il fortunato innesto sul tronco del grande umorismo classico russo di una poetica dell’emarginazione alla Charles Bukowski. Scene di coinvolgente comicità, fatte di quadri staccati tenuti insieme in collages estremamente naturali, volti a rappresentare il caos insito nella condizione umana; storie sempre autobiografiche, allegramente pessimistiche, quasi che la vecchia URSS fosse lo scenario più adatto a esprimere l’assurdo dell’esistenza. Con un’attenzione spasmodica verso il linguaggio reale; tanto che i suoi dialoghi sono detti «una fotografia del linguaggio»: quindi la più pura raffigurazione di un tipo umano quale distillato da circostanze storicamente irripetibili. Nel Giornale invisibile si racconta di ciò che succede tra russi intorno al tentativo di fondare un periodico a New York, per la colonia degli immigrati. Perché l’Homo sovieticus, in patria o in esilio resta tale in realtà, come se fosse, assai più che il frutto di una società storica, una delle alternative dell’essere uomini. E tra le più divertenti a osservarla.