Se c’è uno scrittore moderno che evoca irresistibilmente l’appellativo di «saggio» (purché si spogli il termine della risonanza pomposa che talora lo accompagna), questi è W.H. Auden. Un saggio che parlava, come ha osservato il suo interprete principe, Iosif Brodskij, con un tono «pacato, senza enfasi, senza un pedale qualsiasi», che sapeva offrire a ogni passo «metafisica travestita da senso comune». E sempre Brodskij aveva riconosciuto in lui «una sensibilità unica, nel suo amalgama di onestà, distacco clinico, controllato lirismo». Auden era un devoto della forma, certo. Ma appunto per questo – perché, alla maniera del filologo, sapeva vedere le parole separate da tutto, come «piccole liriche su se stesse», perché nessun allettamento morale ebbe mai la forza di distrarlo dalla cura del verso – le sue riflessioni sulla pratica letteraria, sul leggere, sullo scrivere assumono una dimensione ulteriore, che coinvolge tutto, come solo avviene in Simone Weil. Una volta acquisito il suo magistero di poeta, l’aspetto che oggi in lui più colpisce, e rimane da scoprire, è forse la sua sbalorditiva capacità di capire in ogni ordine di cose e a ogni livello, e senza mai alzare il tono della voce. Per intendere questo Auden è indispensabile leggere i suoi saggi. Egli stesso, nel 1962, scelse e raccolse quelli che più gli stavano a cuore in un volume intitolato «La mano del tintore», di cui presentiamo qui una prima parte, dedicata ai temi più generali.
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Se c’è uno scrittore moderno che evoca irresistibilmente l’appellativo di «saggio» (purché si spogli il termine della risonanza pomposa che talora lo accompagna), questi è W.H. Auden. Un saggio che parlava, come ha osservato il suo interprete principe, Iosif Brodskij, con un tono «pacato, senza enfasi, senza un pedale qualsiasi», che sapeva offrire a ogni passo «metafisica travestita da senso comune». E sempre Brodskij aveva riconosciuto in lui «una sensibilità unica, nel suo amalgama di onestà, distacco clinico, controllato lirismo». Auden era un devoto della forma, certo. Ma appunto per questo – perché, alla maniera del filologo, sapeva vedere le parole separate da tutto, come «piccole liriche su se stesse», perché nessun allettamento morale ebbe mai la forza di distrarlo dalla cura del verso – le sue riflessioni sulla pratica letteraria, sul leggere, sullo scrivere assumono una dimensione ulteriore, che coinvolge tutto, come solo avviene in Simone Weil. Una volta acquisito il suo magistero di poeta, l’aspetto che oggi in lui più colpisce, e rimane da scoprire, è forse la sua sbalorditiva capacità di capire in ogni ordine di cose e a ogni livello, e senza mai alzare il tono della voce. Per intendere questo Auden è indispensabile leggere i suoi saggi. Egli stesso, nel 1962, scelse e raccolse quelli che più gli stavano a cuore in un volume intitolato «La mano del tintore», di cui presentiamo qui una prima parte, dedicata ai temi più generali.